I  VALORI  NUTRIZIONALI  DELLA  PASTA

Il valore nutrizionale della pasta, se si considera da un punto di vista dietologico la sua

composizione bromatologica, non risulta poi così elevato.

La pasta, infatti, è soprattutto un alimento apportatore di amido, cioè di glucidi, e, in misura di gran

lunga inferiore (circa 7-8 volte!), di proteine .

E' stato ricordato da alcuni degli Oratori che mi hanno preceduto, che la pasta apporta anche alcuni

minerali ed, in particolare, oligoelementi, come ferro e zinco; ma certamente la pasta non può essere

considerata come un importante alimento apportatore di oligoelementi o di vitamine (tab. 1): sono

altri gli alimenti ed i cibi presenti nella nostra razione alimentare incaricati di rifornire il nostro

organismo di vitamine e di minerali.

Quindi la pasta è sostanzialmente un apportatore di glucidi, unitamente ad una modesta quantità di

proteine, peraltro di valore biologico non particolarmente elevato (2, 13, 25, 26, 399. Infatti, se noi

analizziamo lo spettro aminoacidico della componente proteica della pasta, limitatamente al

contenuto di alcuni dei più importanti aminoacidi, e lo confrontiamo con quello della componente

proteica di alcuni alimenti di uso comune (tab. 2) come l'uovo, la caseina del latte o le proteine della

soia, si può osservare come la farina di grano e di semola si caratterizzino per il basso contenuto in

aminoacidi essenziali, in modo particolare in lisina, che è un aminoacido limitante, cioè riduce e

limita appunto il valore nutritivo del complesso proteico della farina di frumento (25, 26). Il valore

biologico della farina di frumento e quindi della pasta, calcolato con vari metodi, risulta perciò

piuttosto basso (tab. 3): de, rapportato alla carne o all'uovo, sia come valore biologico (BV) che

come utilizzazione proteica netta (NPU), varia da circa 2/3 alla metà (13, 26, 39, 41). Ciò significa

che se noi vogliamo rimpiazzare con le proteine della pasta i 15 g di proteine ad elevato valore

biologico che ci derivano da 100 g di carne, dovremmo mangiare circa 250- 300 g di pasta, il che

comporta, dal punto di vista nutrizionale, una serie di implicazioni in rapporto alla notevole quantità

di amido e di calorie che in questo modo si ingeriscono.

 

La pasta associata a condimenti

Tuttavia, vi è da considerare che la pasta non si mangia mai da sola ed è questo il suo sostanziale

vantaggio rispetto ad altri alimenti, per esempio il pane: questo è in pratica il punto di forza da

tenere ben presente. Difficile risulta infatti mangiare la pasta tal quale, mentre è facile mangiare il

pane da solo. Il consumo della pasta, di solito prevede, invece, la sua associazione con una serie di

ingredienti o condimenti che ne esaltano e ne migliorano il valore nutritivo, attraverso una sorta di

meccanismo di compensazione o meglio di «complementarizzazione» del complesso aminoacidico,

e ciò ne aumenta notevolmente il valore biologico complessivo (2, 13, 245, 30, 37, 39).

Prendendo a prestito dalla farmacologia un particolare comportamento conseguente all'associazione

dei farmaci, noi potremmo parlare di «sinergia di effetti», quando per esempio associamo alla pasta

le proteine del formaggio. Il fenomeno risulta cioè analogo a quanto si verifica quando si associa ad

un farmaco dotato di una «potenza» terapeutica pari a 4, un altro farmaco con «potenza» uguale a 2,

e si ottiene non una sommazione (4+2 = 6), ma, addirittura, una «sinergia di effetti» con risultato

terapeutico finale uguale a 8 o anche 9! La stessa situazione si realizza quando

«complementarizziamo» gli aminoacidi della pasta con il complesso proteico derivante dal latte o

dai prodotti lattiero-caseari, quindi con il formaggio, oppure con le carni o i pesci (tab. 4). Nè risulta

in questo modo un notevole aumento del valore biologico per un «effetto sinergico», con un

completo utilizzo del complesso proteico globale e perciò con una notevole elevazione del valore

nutritivo (13, 24, 26, 37).

Ciò è quanto si verifica in pratica, con la normale e comune assunzione quotidiana di pasta: anche

se ne introduciamo, ad esempio, una porzione relativamente contenuta ( 70 g ), condita soltanto con

un po' di salsa di pomodoro, contenente circa un 10% di olio di oliva, ma con l'aggiunta di 10 g di

formaggio Parmigiano-Reggiano grattugiato, si realizza un consistente aumento del complesso

proteico globale, che così opportunamente complementarizzato raggiunge un coefficiente assai

elevato di utilizzazione proteica netta ..

Di importanza notevole, dal punto di vista nutrizionale, è poi il riscontro che in tali condizioni

vengono correttamente rispettate quelle proporzioni di apporto percentuale di calorie dai tre

nutrienti energetici, (13 per le proteine, 30 per i lipidi e 57 per i glucidi), quella proporzione cioè di

circa 1, 2, 4, ritenuta ottimale dai Nutrizionisti di tutto il mondo per la nostra alimentazione (13, 25,

30, 41).

Se poi la porzione di pasta viene condita con ragù di carne il valore nutritivo viene ulteriormente

aumentato (25, 30, 39).

Si può osservare che nel caso della pasta al pomodoro si raggiungono coperture fino a circa il

25-30% dell'apporto proteico, sempre per l'aggiunta di formaggio parmigiano, e di circa il 40% del

fabbisogno di Vit. C. Se la pasta viene invece condita con ragù, si supera addirittura il 40% del

fabbisogno proteico giornaliero e si raggiunge circa il 25-30% di quello del ferro (tab. 6) (25).

ecco quindi dov'è il punto fondamentale:le caratteristiche bromatologiche della pasta in sé e per sé,

possono forse essere considerate anche non complete dal punto di vista nutritivo, ma poiché si

integrano, in maniera ottimale, con i condimenti con cui vengono arricchite per il consumo, si

ottengono piatti complessivamente ben equilibrati, assai nutrienti, e quindi validissimi e

nutrizionalmente completi.

 

La pasta farcita

Se quanto è stato fin qui detto vale per la pasta tradizionale, e cioè per intenderci per spaghetti o

maccheroni, a maggior ragione vale per le paste arricchite o farcite, alle quali è recentemente

approdata anche l'Industria, predisponendo, sulla scia di tradizioni gastronomiche e culinarie

collaudate e perpetuatesi nei secoli, prodotti pronti all'uso (ravioli, tortelli, agnolotti, etc.),

caratterizzati da un notevole valore nutritivo, oltre che gastronomico (37).

Una porzione di 100 g di tortellini o agnolotti, con il rispettivo ripieno raggiunge dei contenuti finali

di circa 15 g di proteine, 10 g di lipidi e 46 g di glucidi. Sono ancora abbastanza rispettate quelle

proporzioni percentuali di calorie fornite dai vari nutrienti (15), 30, 55%) ritenute ottimali come

ricordato prima

 Però anche i tortellini o gli agnolotti non si mangiano tal quali: di solito

vengono consumati opportunamente conditi. Allora, se si aggiunge un po' di formaggio e ragù di

carne ai tortellini, abbiamo un aumento della quota proteica e lipidica a scapito della quota di

carboidrati, che sbilancia relativamente il piatto (tab. 8); ma comunemente non mangiamo un piatto

di tortellini e nient'altro! Di solito il pasto viene articolato e integrato, ad esempio con un piatto di

verdure miste di circa 200 g . condite con un cucchiaino da caffè di olio di oliva, e associate ad un

panino e un frutto . Analizzando nutrizionalmente questo assemblaggio, si può constatare

che un simile pasto apporta circa 900 Kcalorie così ripartite: 134 sono fornite dalla componente

proteica, 270 dai lipidi, 510 dai glucidi; la suddivisione percentuale risulta perciò di 15 .

 Ancora una volta abbiamo ottenuto quel rapporto tra le calorie derivate dai tre nutrienti

energetici, considerato ottimale dai nutrizionisti. Un piatto di tortellini al ragù, un po' di verdura, un

panino e un frutto costituiscono quindi un pasto ideale, che rispetta alla perfezione queste

proporzioni .

Ma anche se si considera una porzione di tortellini condita con pomodoro e Parmigiano-Reggiano

 e nuovamente l'associamo con le verdure, l'olio, il panino e la frutta (tab. 12), ancora una

volta otteniamo quelle percentuali di calorie fornite da proteine, lipidi e glucidi, rispettivamente di

10, 26 e 64, che corrispondono sempre a quel modello ottimale suggerito dai nutrizionisti .

 

Effetti metabolici conseguenti ad un pasto glucidico

In epoca relativamente recente, nel contesto del problema della ottimizzazione della nostra

alimentazione, grande importanza è stata data alla fibra, partendo dal presupposto che le brusche

fluttuazioni glicemiche e cioè i picchi di iperglicemia, conseguenti all'assunzione di un pasto a base

di carboidrati contenente scarsa o niente fibra, potessero essere non opportuni, forse dannosi, per il

nostro organismo .

Di gran lunga preferibile risulterebbe invece una modulazione dell'assorbimento intestinale dei

carboidrati, cioè ben distribuito e diluito nel tempo, senza fluttuazioni rapide e importanti della

glicemia, come si osserva quando nel pasto è presente una opportuna quantità di fibra.

In presenza di abbondante fibra nelcontenuto gastro-intestinale si verifica una diluizione ed un rallentamento

 nell'assorbimentodei nutrienti, e del glucosio in particolare, con oscillazioni glicemiche molto più contenute,

 mentre, con un pasto povero di fibre, le oscillazioni glicemiche e, conseguentemente insulinemiche, sono più

accentuate con brusca e rapida caduta della glicemia, che a sua volta provoca sensazione di fame e

induce ad iperalimentarsi.

Il classico esempio di tale evenienza, lo si può constatare quando, al mattino, si consuma un pasto

misto con fette biscottate o biscotti integrali e del latte, per cui si ha un assorbimento diluito nel

tempo (parte A della fig. 1) rispetto d una colazione a base di dolci con scarso o nullo contenuto di

fibra, come ad esempio un dolce con crema ed una tazza di caffè; in quest'ultimo caso,

accuseremmo, alle 10 del mattino, un languore di stomaco con una fastidiosa sensazione di fame,

che ci indurrà a mangiare di nuovo, perché siamo in presenza di una evidente ipoglicemia .

 

Effetti metabolici della pasta confrontata con altri comuni alimenti glucidici

Grande importanza è stata perciò attribuita alla presenza o meno della fibra in un pasto, proprio

perché in grado di rallentare o modulare l'assorbimento intestinale dei nutrienti ed in particolare dei

carboidrati (34).

Sulla base di questo criterio Jenkins (18), ha stabilito addirittura una scala gerarchica con un «indice

glicemico» (tab. 13), ottenuto calcolando le aree occupate dalle variazioni glicemiche dopo

assunzioni di vari cibi glucidici. Ponendo uguale a 100 l 'indice del glucosio, Jenkins e coll. (18, 20)

hanno potuto dimostrare che il pane integrale ha un indice glicemico pari a 70-75%, mentre gli

spaghetti si collocano su valori di 50-59 e, addirittura, gli spaghetti «integrali» hanno un indice

glicemico ancor più basso (40-49): il pane presenta perciò un indice assai meno favorevole rispetto

alla pasta.

Tuttavia, lo stesso Jenkins e Coll. (19) riportavano, qualche tempo dopo , i risultati di una

ricerca che in realtà sembrano sollevare qualche dubbio sugli effetti della fibra. Infatti,

somministrando una eguale quantità di carboidrati sotto forma di pane bianco, pane integrale e

spaghetti, riferivano di aver riscontrato un eguale andamento della glicemia con i due tipi di pane

 mentre ben più contenuto e modulato risultava quello osservato dopo l'assunzione di

spaghetti, ed, inoltre, fatto non meno importante, la sensazione di sazietà e ripienezza gastrica dopo

l'assunzione dei tre prodotti esaminati (parte destra della figura) risultava del tutto uguale. Da questi

dati sembrerebbe perciò di poter concludere che dubbio risulterebbe il ruolo della fibra o che

quantomeno altri fattori potrebbero essere chiamati in causa per poter più correttamente interpretare

il fenomeno.

Successivamente Hermansen e coll. (17) hanno studiato in alcuni soggetti diabetici di Tipo 1, cioè

insulino-dipendenti, l'andamento delle curve glicemiche dopo assunzione di un uguale quantità di

carboidrati (circa 40 g di amido), sotto forma di patate, di riso e di spaghetti .. Mentre

le patate e il riso inducono un aumento rapido della glicemia, dopo l'assunzione di spaghetti

l'aumento risulta molto più contenuto, ma la differenza esistente tra riso, patate e spaghetti è

soprattutto nel contenuto in fibra: le patate ne contengono infatti quattro volte di più (tab. 14). A

questo punto, ancora una volta il concetto dell'importanza o della possibile interferenza della fibra

comincia un po' a vacillare, ma soprattutto dovremmo cominciare a considerare possibili altri fattori

interferenti.

 

Il «formato» della pasta, i tempi di cottura e i vari tipi di amido

Un conferma dei risultati osservati da Hermansen e coll., ci deriva anche dalle ricerche di Wolever e

coll. (43), che hanno confrontato le variazioni glicemiche conseguenti all'assunzione di 50 g di

carboidrati sotto forma di pane bianco e di spaghetti in diabetici insulino-dipendenti (Tipo II) ed

insulino-indipendenti (Tipo II) (fig. 4); tali A.A. hanno anche considerato le possibili interferenze

dovute al «formato» della pasta ed ai tempi di cottura  ma non hanno tuttavia rilevato,

differente significative di comportamento in tal senso. Evidentemente altri fattori sono perciò

responsabili del fenomeno. Verosimilmente il tipo di amido caratteristico dei vari alimenti potrebbe

esercitare un suo ruolo. Infatti, in una serie di ricerche condotte su 12 giovani adulti sani, Mourot e

coll. (27) hanno osservato, dopo ingestione di 50 g di amido derivato da quattro differenti alimenti

(patate, pane, riso e pasta)  che le curve glicemiche risultavano nell'ordine: più elevata per il

pane, intermedia per le patate ed il riso, significativamente più bassa per gli spaghetti.

Comportamento del tutto analogo hanno mostrato anche le curve insulinemiche .

 

I tempi di svuotamento gastrico e gli altri fattori interferenti

Ipotizzando che tale comportamento potesse essere dovuto ai diversi tempi di svuotamento gastrico

dei vari alimenti, gli A.A. hanno studiato anche questo aspetto, «marcando» preventivamente gli

alimenti con radiotecnezio 99, ed in effetti hanno dimostrato che il tempo di svuotamento è

significativamente diverso e ben correlato con le massime variazioni glicemiche

osservate .

In sostanza, dall'esame delle ricerche fin qui riferite si può sostenere che molti fattori modulano la

risposta glicemica ai cibi amilacei, quali la forma fisica dell'amico (29), il suo contenuto in amilosio

(15) o in fibra (3, 16, 20, 22, 23), i processi di preparazione a cui è stato sottoposto l'alimento in

esame (4, 6), la sua velocità di digestione (38, 40). In rapporto, comunque, ad ognuna di queste

evenienze e circostanze, la pasta ha però sempre mostrato un comportamento chiaramente più

favorevole e assai preferibile, rispetto a tutti gli altri cibi amilacei con cui è stata confrontata, e ciò

sia in soggetti normali, che in diabetici di Tipo I e II.

Sulla base, infine, degli inequivocabili riscontri scientifici sperimentali condotti sull'uomo riportati

da Mourto e coll. (27), sembrerebbe di poter ragionevolmente attribuire un preciso ruolo anche ai

tempi di svuotamento gastrico osservati per cibi amilacei diversi.

A questo proposito vi è però ancora da considerare che, i tempi di svuotamento gastrico, sono a loro

volta fortemente condizionati dall'eventuale contemporanea presenza nello stomaco di lipidi e

proteine (5, 12, 14, 28, 42, 44).

 

Il ruolo della co-ingestione di lipidi e proteine

Poiché, come abbiamo già detto all'inizio del nostro intervento, gli spaghetti e, più in generale la

pasta, non si mangiano mai soli, questi aspetti rivestono, sotto il profilo pratico, una importanza

tutt'altro che trascurabile.

Collier e coll. (5) (fig. 11) e, più recentemente e specificamente, Wolever e coll. (44), hanno

studiato gli effetti della coingestione di grassi sulle risposte metaboliche al pane bianco e agli

spaghetti, dimostrando che la contemporanea presenza di lipidi, specie se in notevole quantità

riduce la risposta glicemica, verosimilmente attraverso un rallentamento del tempo di svuotamento

gastrico indotto dai lipidi (Welch e coll.) (42). Ma anche per le proteine è stato chiaramente

dimostrato un ben preciso effetto sulla risposta glicemica e insulinemica (28); ed anche in questo

caso ben correlato con la quantità assunta, nel senso che con l'aumento delle proteine aumenta la

risposta insulinica e si riduce quella glicemica, evidente conseguenza della maggior quantità di

insulina secreta.

In definitiva, man mano che aumenta la quantità di grasso (16, 35 e 55%) del pasto (44), si verifica

una progressiva riduzione della curva glicemica, a dimostrazione che i grassi possono interferire

sulla velocità di assorbimento intestinale dei carboidrati (42). E siccome la pasta si mangia di solito

condita, evidentemente, più si condisce, più si rallenta l'assorbimento, più modulata è la risposta

glicemica.

Ma spesso noi mangiamo la pasta col ragù, cioè con un'aggiunta di proteine, oppure mangiamo

spaghetti aglio e olio e peperoncino, e successivamente, poi una porzione di carne; ebbene non c'è

differenza de la bistecca nello stomaco arriva dopo la pasta: infatti, normalmente, dopo il bolo

iniziale di un pasto, si chiude il piloro ed il cibo viene sottoposto ad un continuo rimescolamento

per almeno tre ore, fino a completamento cioè della prima fase di digestione delle proteine, prima

che avvenga il suo graduale passaggio nel piccolo intestino e si dia l'avvio alla scissione dei

polisacaridi, dei polipeptidi, dei peptoni e dei trigliceridi e, finalmente, inizi la fase di assorbimento

dei nutrienti.

Da ultimo, un notevole interesse, soprattutto per la produzione industriale della pasta, rivestono le

recenti osservazioni del gruppo di Ricercatori Danesi di Aarhus (32), che, in diabetici di Tipo 11,

dimostrano in modo chiaro e inequivocabile che gli spaghetti di produzione industriale, a parità di

condizioni, presentano una risposta glicemica ed insulinemica, inferiore in modo altamente

significativo, rispetto agli spaghetti fatti in casa e al solito pane bianco, classico alimento di

riferimento per questo tipo di indagini.

Tale rilievo costituisce, dal punto di vista clinico, metabolico e dietologico, un significato del tutto

particolare: infatti, evitando il picco iperglicemico ed iperinsulinemico post-prandiale, la pasta di

produzione industriale presenta un notevole vantaggio, rispetto a quella fatta in casa o ad altri

alimenti amilacei. Il vantaggio risulta comunque tale da vendere del tutto irrilevanti le possibili

remore avanzate qualche tempo fa da ricercatori, peraltro non nutrizionisti clinici (9, 10, 11, 33),

circa la possibile riduzione del valore nutrizionale della pasta, per la diminuita biodisponibilità di

lisina conseguente ai trattamenti tecnologici di essiccamento ad elevata temperature utilizzati nella

produzione industriale.

Sul piano pratico, infatti, l'eventuale riduzione di lisina, anche se si tratta dell'aminoacido limitante

dei cereali, considerando che la pasta non viene mai consumata da sola ma bensì con altri

ingredienti (formaggi, carne, pesci), che ne sono particolarmente ricchi; il suo apporto viene perciò

regolarmente integrato e abbondantemente compensato, ne consegue che il fatto riveste

nutrizionalmente un significato del tutto trascuraile. Ben diversa,invece, e assai utile è la

modulazione delle risposte glicemiche ed insulinemiche, che, sul piano clinico, rende la pasta

prodotta industrialmente più vantaggiosa e preferibile.

 

Commenti e conclusioni

Le conclusioni che possiamo trarre da questa serie di osservazioni scientifiche possono essere così

schematicamente riportate. innanzitutto sono da considerare le modificazioni a cui vanno incontro

le molecole d'amido in conseguenza dell'elevata temperatura dell'essiccamento, dei vari

procedimenti tecnologici previsti cioè a livello industriale, per produrre la pasta, per cui, partendo

dallo stesso ingrediente, che è la semola o la farina di grano duro, si possono avere risultati molto

diversi sul piano clinico-metabolico come risposta glicemica e insulinemica proprio in rapporto alla

interferenza di tali fattori. i tempi di svuotamento gastrico possono a loro volta interferire, come si è

visto, e, ancora, un pasto misto costituito dall'associazione con grassi e con proteine ed in quantità

diverse, può condizionare la velocità di assorbimento dei carboidrati e modificare le curve

glicemiche ed insulinemiche.

Tuttavia, a parità di quasi tutte queste condizioni, la pasta, specie se di produzione industriale,

risulta sicuramente preferibile rispetto al pane, al riso, alle patate, ad altri alimenti amilacei ed alla

frutta, nel senso che induce più contenute fluttuazioni glicemiche, con minori picchi iperglicemici

post-prandiali, e quindi può essere indicata come valido ed indispensabile apportatore di carboidrati

nella prescrizione dietetica di un soggetto diabetico, sia insulino-dipendente che non insulinodipendente,

e nei soggetti con insulino-resistenza, come tipicamente si riscontra negli obesi.

Nonostante questa numerosa serie di documentazioni scientifiche specificamente dedicate alle

risposte metaboliche conseguenti all'assunzione di pasta, è di questi giorni la notizia pubblicata in

prima pagina sul New York Times, che invita a contenerne il consumo, in rapporto al fatto che circa

il 25% della popolazione statunitense può essere insulino-resistente ed in sovrappeso e perciò

dovrebbe ridurre l'assunzione di amido e zuccheri semplici, causa di importanti fluttuazioni

glicemiche, iperinsulinemia, ipertrigliceridemia, ipertensione, diabete di Tipo II (la cosiddetta

sindrome X di Gerald Reaven). Resta difficile capire perché sia stata posta sotto accusa proprio la

pasta, che, alla luce di quanto abbiamo ampiamente riportato, sarebbe proprio l'alimento da

preferire rispetto al pane, alle patate, al riso, ai cosiddetti prodotti da forno, e, ovviamente, ai dolci,

ai succhi di frutta, ai soft-drinks, di cui gli statunitensi fanno larghissimo uso. Anche la pizza, il cui

uso è sicuramente più diffuso di quello della pasta, dovrebbe caso mai essere guardata con assai più

sospetto, in rapporto all'esagerata risposta iperglicemica rispetto ad un pasto con analogo contenuto

glucidico e calorico, osservata, del tutto recentemente, in giovani diabetici.

In sostanza, sulla base delle documentazioni scientifiche qui riportate, sostenere che il consumo di

pasta può essere pericoloso, risulta perciò un'assurdità.

Le affermazioni sulla pericolosità e le possibili dannose implicazioni correlate al consumo di pasta,

anche in una popolazione «a rischio», perché largamente in sovrappeso, se non già obesa, e con

insulino-resistenza come quella nord-Americana, non hanno riscontro nella letteratura scientifica

internazionale, e perciò chi le ha sostenute o non conosce la letteratura medico-scientifica o ha

travisato quanto in essa riportato. Questa seconda ipotesi sembrerebbe essere la più verosimile,

perché nessuno degli autorevoli Studiosi citati nell'articolo sostiene che la popolazione statunitense

dovrebbe ridurre il consumo di pasta: il suggerimento è invece di ridurre le calorie totali ed in

particolare quelle derivate dai grassi, dagli zuccheri semplici e dai cibi amilacei in generale. Fra

questi ultimi, peraltro, le più recenti evidenze scientifiche, indicano propio la pasta ed in particolare

quella di produzione industriale, come l'alimento amilaceo che non provoca picchi iperglicemici ed

iperinsulinemici, che induce per contro un modulato e protratto aumento della glicemia con una

meno intensa increzione insulinica, a cui consegue un prolungato senso di sazietà postprandiale.

in definitiva, proprio in considerazione dei particolari effetti metabolico-umorali e clinici che

conseguono all'assunzione di un pasto a base di pasta, ci sembra che possiamo verosimilmente

ritenere che esistono buone e valide ragioni per considerare ancora la pasta come il migliore degli

alimenti a base di amidi.

La pasta, infatti, è dotata di caratteristiche bromatologiche e peculiarità metaboliche tali da

consentirle di occupare un posto di primo piano nella nostra alimentazione quotidiana, e non

soltanto in condizioni fisiologiche e o durante momenti di richieste energetiche elevate o particolari

(periodo di accrescimento, pasto pre-gara e durante speciali prestazioni atletiche, intensa attività

sportiva, etc.), ma anche in determinate situazioni cliniche, come nel diabete sia di Tipo I che II,

dove numerose ricerche sperimentali e cliniche, ne hanno del tutto recentemente individuato

l'impiego preferenziale rispetto agli altri alimenti amilacei, per le più contenute e modulate risposte

metabolico-umorali.

 

 

 

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